ESTETICA DEL GUSTO. Delizie e Veleni di un menù di massa
Secondo step: Leyla Goormaghtigh | Sophie Schmidt
a cura di Viana Conti
con il patrocinio del Consolato Generale di Svizzera a Milano
giovedì 16 luglio 2015 – 6 settembre 2015
OPENING giovedì 16 luglio 2015 ore 18.00 – 22.00
ore 19 introduzione alla mostra della curatrice
Leyla Goormaghtigh
Resti. Sacralità Trasversale del Nutrimento e dell’Habitat
La mostra proposta dall’artista Leyla Goormaghtigh all’interno del ciclo sul cibo e sul nutrimento, nel contesto dell’Expo Universale 2015, a Milano, non si discosta dal suo abituale ambito di riflessione, che pone la Casa, intesa come Habitat e Habitus, ed i Resti del Rito quotidiano del vivere, al centro della sua ricerca. La sua opera è permeata dalla poetica bachelardiana, di segno rassicurante, del nido, nello spazio della casa, e della poeti- ca, di segno destabilizzante, dello spostamento, del volo nel vuoto, dell’azzardo, dell’imprevisto, non escluso quello del viaggio per mare del migrante, del rifugiato. Ricorrono, infatti, nel suo multiverso formale, le figure della barricata, del rifugio, del bunker, del recinto, di fondi lignei spezzati, collassati, di oggetti irreali sospesi nel vuoto, temporaneamente sottratti alle leggi di gravità, quando, addirittura, il suo inventario grafico, sulla scia di ricercatori di spazi impraticabili, come Reutersvärd, Escher, i Penrose, non scala o precipita da prospettive simulate, falsi incastri, slittamenti dimensionali, otticamente illusori. Ma c’è anche un’altra vertigine, che si profila accanto allo spazio bianco del foglio, o nel dilagare della macchia nera di inchiostro, ed è quella, insondabile, della propria interiorità. Nata a Ginevra nel 1976, residente a Berna, Leyla Goormaghtigh è un’artista visiva che rappresenta, con il disegno a grafite, l’inchiostro di china, l’acquarello, la stylo bic, assemblage di elementi tratti dalla realtà, dall’immaginazione, dall’attività onirico-ipnagogica, dagli archivi della memoria. Sono forme inven- tate, che nuotano, in spazi astratti, come in una danza al ralenti; sono presenze, sospese nel vuoto di un foglio, che si ibridano con elementi organici, tralci vegetali, ritagli di pelliccia, elementi tratti dalla realtà come il legno. Innegabile esperta di innesti, alimenta il suo immaginario alle sue radici belghe, da parte di padre, e iraniane, da parte di madre. Accanto ai décalages tra bidimensione e tridimensione, l’artista non cessa di riprodurre il percorso della mente nel rendere leggibili dati incompatibili e non presenti negli archivi delle forme codificate, nei depositi di una mnemoteca. Di formazione anche letteraria, sovente pratica dispositivi narrativi, frequentati dallo scrittore argentino Jorge Luis Borges, per attivare mondi di realtà parallele, slittamenti temporali, soggetti e oggetti, anche quotidiani, ma di misteriosa provenienza. Da un punto di osservazione etno-antropologico, non soprende, infatti, che i suoi disegni a inchiostro di china, di piccole e medie dimensioni, si organizzino espo- sitivamente, sia visti singolarmente che nell’insieme, in una composizione aggregante a Totem. Un’avvolgente e, al tempo stesso, inquietante pelliccia grigia avanza, morbidamente, su strutture rigide di legno o di metallo, mettendo in moto memorie remote di un lupo-totem, già evocato, da tribù pagane, in situazioni di pericolo. Si attiva così, simbolicamente, un’aura di ritualità e sacralità, di liturgia ed iniziazione, che fa rivivere, in un clan fami- liare, in un caldo ambiente domestico, dove il cibo viene quotidianamente offerto e consumato, il mito del ribelle Prometeo, signore del fuoco, schierato dalla parte degli Uomini, a cui egli destina il meglio delle carni, lasciando i resti delle ossa e della pelle agli Dei, che troveranno il modo di punire lui e l’umanità tutta, rendendola mortale. Accanto al profilarsi di Totem, nella memoria delle sue calligrafie ideogrammatiche, emergono, reiteratamente, particolari fermi-immagine di archetipi, che lo storico dell’arte tedesco Aby Warbug definirebbe Pathosformeln- Formule del Pathos, presenti in antiche culture, scomparse in epoche successive, quindi riemerse. Quando le sue scansioni calligrafiche di oggetti assumono un andamento para-narrativo rinviano, cripticamente, a orientali emakimono o etakimono. Se, nelle preziose chine rituali di Leyla Goormaghtigh in mostra, un tronco totemico fa razza con un animale, un minerale, un vegetale, un albero, un vaso, un mortaio da cucina, un osso di scar- to, un supporto di legno, un mattone, un impossibile appendiabiti bipede, un involucro misterioso, inevitabile è il rimando ai Corpi senz’organi di Deleuze e Guattari, mentre sono organi senza corpo quei piccoli disegni in colonna, quasi quadri-oggetto, sul tema della Digestione, che rappresentano cellule intestinali colorate con tannini alimentari, e che, provocatoriamente, si confrontano con i grandi disegni sull’Indigestione, su carta libera, scaturiti da un’ampia gestualità su inarrestabili colature di inchiostro di china e tintura di mallo di noce. La preziosità, quasi incisoria, della micro dimensione si contrappone al gusto Dada, al limite del dissacrante e dell’irriverente, delle opere iperdimensionate. In questa forzatura dei limiti dell’estetica convenzionale e della logica formale affiora, nell’opera di Leyla Goormaghtigh anche il gusto del nonsense surrealista. Se una fami- liarità si può trovare in quell’aspetto del suo lavoro che rappresenta gli oggetti nei loro accostamenti incongrui è con l’artista svizzera Meret Oppenheim, come ha anche acutamente osservato il critico d’arte e curatore Boris Magrini; relativamente, invece, a quella narrazione sottesa al polimorfismo del suo universo di oggetti naturali e cultuali, è possibile trovare un’ascendenza concettuale nell’opera del geniale artista belga Marcel Broodthaers. Non è inusuale per Leyla Goormaghtigh forzare, con il suo potenziale immaginativo e visionario, i territori della percezione visiva e tattile. Resta indecidibile se i suoi archetipi totemici siano da ascriversi ad una metafisica surreale o ad una sublimazione poetica della realtà.
Sophie Schmidt
Arte e Supermercato. Spettralità Fantasmagorica degli Oggetti
Davanti alla fantasmagoria della merce di una società consumistica, un’artista come Sophie Schmidt opera la scelta di riprodurre artigianalmente, ad uno ad uno, in diverse dimensioni, oggetti con marchi, simboli, acronimi, loghi pubblicitari, non esclusi slogan, atti a definire l’identità visiva dell’azienda, con una capacità mimetica tal- mente straordinaria da rendere indistinguibile la copia dall’originale. Si tratta di contenitori e involucri di prodotti di uso quotidiano, appartenenti alle sfere dell’alimentazione in genere, della prima colazione, della nutrizione dell’uomo e del pianeta, come nel caso della presente mostra, dello sport, dell’igiene della persona, della sar- toria, della moda, della fotografia. Questi feticci della merce, esprimendo una forza lavoro, mettono in circolo l’universo spettrale della reificazione, che assume le sembianze, nella compulsione a collezionare di Sophie Schmidt, di tavolette di chewingum, tute e sacche sportive, metri a nastro di tela plastificata, contenitori di yogourth e di latte, enormi sacchetti di farina, buste, tubetti di colore, di dentifricio. Se, da una parte, l’artista è stimolata dal salto di dimensione dal micro al macro e dal confronto dell’originale con il suo doppio, del vero con il falso, dall’altra, la sua opera trasmette una riflessione ironica e malinconica sull’inarrestabile induzione dei bisogni in una società di massa. Affiora, con evidenza, nel suo lavoro, il rapporto enigmatico esistente tra la vita reale ed i prodotti destinati alla vita. Il linguaggio che adotta nei suoi allestimenti in galleria e nel museo, accuratamente adeguati allo spazio espositivo, è di segno decisamente minimalista, come si può rilevare nell’installazione Höchtsmass del 2008, in cui il classico metro giallo da sarto, esorbitato dalla sua misura – cm. 24 x 240 – si snoda per tutta la lunghezza della galleria. Lo spettacolo del consumismo più sfrenato, in atto nelle metropoli occidentali, la induce, come effetto di reazione e resistenza, a collezionare, ossessivamente, prodotti di misurazione, di scarto, come gli involucri di plastica, carta, cartone, del mondo della merce, oltre alle fatture, gli scontrini fiscali, i cartellini dei prezzi speciali, delle promozioni, per riprodurli ad arte, facendone un suo uni- verso creativo: l’esito risponde ad un lavoro di riproduzione ad acquarello, su supporto cartaceo, più o meno pesante, perfettamente eseguito. Perfino il sacco della spazzatura, ingigantito dalla prospettiva, in una società iperconsumistica, di un’inarrestabile crescita dei rifiuti, si riveste del glamour della pubblicità, in un sistema dello star system, in cui ogni prodotto trova, sovente anche nel cinema, il suo testimonial di successo. Il mondo da cui Sophie Schmidt trae i suoi soggetti è analogo a quello dei prodotti industriali, di largo consumo, e delle catalogazioni merceologiche a cui ha fatto riferimento, per i suoi ready made, Marcel Duchamp, come ha luci- damente dimostrato l’artista italiano Franco Vaccari nel suo libro Duchamp messo a nudo. Dal ready made alla finanza creativa, gli Ori edizioni, 2009. Davanti a questo dispiegamento di ogni micro o macro dispositivo della macchina produttiva, come pure dell’Industria Culturale, inevitabile è il rinvio ad Andy Warhol ed ai suoi Brillo Boxes e Campbell’s Soup, spostati dagli scaffali del supermercato ed esposti, a differenza delle riproduzioni di Sophie Schmidt, senza alcun intervento creativo, in gallerie e musei d’arte, con la denominazione di Pop Art, di cui è l’indiscussa icona. C’è da chiedersi se la legittimazione di valore di queste opere provenga dall’effetto sociale del dispendio di forza lavoro che le ha prodotte e dall’investimento di scambio che ne è seguito, con altri soggetti, come pure, se dall’accoppiamento del corpo vivente dell’artista con il corpo inorganico della merce, scaturisca una connotazione feticistica dell’opera d’arte. È pensabile che la sua scelta di campo sia nata da una posizione critica nei confronti di un globalismo omologante, come pure da una sua resistenza oppositiva alla velocità. Prese, infatti, le distanze dalla tecnologia digitale, l’artista ricorre alla tecnica dell’acquarello e di una sistematica manualità. Uscita dai ritmi disumani della catena di montaggio, l’autrice ritrova tempi di concentra- zione nel lavoro, che le consentirebbero di pensare, meditare, sognare. La lentezza e la minuziosità di esecu- zione dell’opera trova un suo contraltare nella nevrosi adrenalinica della collettività contemporanea, che regola costantemente i suoi tempi su performance estreme. Significativa diventa, a questo proposito, una sua opera, costituita dalla riproduzione di un rutilante draghetto rosso accostato alla scritta aforismatica, in inglese e giap- ponese, ad acquarello: It wouldn’t do any harm if you spend a moment relaxing to pass time! Non arrecheresti alcun danno se passassi un po’ di tempo in relax! L’esecuzione a mano dell’Opera d’arte, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, di memoria benjaminiana, chiama in causa la questione dell’unicità e di riflesso dell’aura, correlata anche alla legittimazione del suo valore. Una componente concettuale del suo lavoro è leggibile nel rapporto ribaltato che ha con il ready made, da lei assunto come modello da “mettere in posa”, decostruire nelle sue componenti e ricostruire creativamente a mano per una “vetrina” che non è quella del supermercato, ma quella del mondo dell’arte. Sophie Schmidt, nata nel 1969 a Friburgo in Brisgovia, Germania, cresciuta ad Atene, formatasi all’Accademia d’Arte Figurativa di Berlino, residente a Berna, inizia la sua attività espositiva nel Duemila. Ottiene riconoscimenti pubblici, borse di studio, residenze internazionali ed è presente in collezioni pubbliche e private.
Viana Conti