CHANTAL MICHEL

L’INQUIÉTANTE ÉTRANGETÉ

a cura di Viana Conti

MOSTRA PROROGATA FINO AL 20 NOVEMBRE 2016

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con il patrocinio del Consolato Generale di Svizzera a Milano e dell’Istituto Svizzero a Milano

Il titolo Arte e Perturbante, di ordine tematico, dato a questo secondo ciclo espositivo in divenire, dopo quello di Estetica del Gusto – Delizie e Veleni di un Menù di Massa, 2015, a cura di Viana Conti, intende ricondurre alla modalità in cui l’artista esprime una condizione emozionale non solo ambivalente, ma addirittura antitetica. Il Perturbante qui interviene come categoria estetica, sia essa visuale, musicale, concettuale, oggettuale, letteraria, performativa o filmica, analizzata nel suo dar adito ad un paradosso cognitivo. In tedesco il termine Heimlich, che significa familiare, intimo, si colora, nella sua perversione lessicale, del significato del suo opposto Unheimlich, che significa estraneo, non familiare. Viene a crearsi così uno stato di frizione destabilizzante, a livello di senso, già a partire dalla sua definizione, che riconduce, in tal modo, al territorio psichico del turbamento.

L’accezione del termine Il Perturbante in Ernst Jensch, lo psichiatra tedesco che lo ha usato, nel 1906, per primo, va intesa come indecidibilità tra le categorie di animato e inanimato, con l’esito di una conseguente dissonanza interpretativa. Con Friedrich Schelling l’Unheimlich si identifica con l’affioramento di ciò che deve restare nascosto, con il ritorno del rimosso infantile. A partire dal racconto di E.T.A. Hoffmann Der Sandmann/L’uomo della sabbia (1815), il riferimento ai giocattoli e agli automi diventa immediato. Ineludibile un rimando a Walter Benjamin quando individua, nel legame che il bambino intrattiene con il giocattolo, lo stesso rapporto feticistico che lega il collezionista al suo oggetto di collezione. Al termine Perturbante accenna, una prima volta, Freud in Totem e Tabù nel 1912-1913, riprendendolo, nel 1919, nel suo noto saggio Das Unheimliche, tradotto in Italia con il titolo, appunto, di Il Perturbante. Nel tempo, sarà poi con il critico letterario Francesco Orlando, formatosi alla lezione freudiana, che Il Perturbante diventerà Il Sinistro. Il termine Spaesamento viene talvolta usato con una connotazione affine. Quando in un’opera d’arte affiorano icone, figure, simboli, trasalimenti, sensazioni, scene primarie, riscontrabili anche in un inconscio collettivo, allora è agli archetipi (urtümliches Bild), teorizzati nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung, che è lecito riferirsi. Anche Guy Débord, mettendo in opera, con il détournement, una deriva estetico-percettiva, spezza linguisticamente i topoi della consuetudine e della convenzione, in ambito storico e contemporaneo, attuale e virtuale. Il ciclo espositivo, che viene, di volta in volta, documentato da una pubblicazione bilingue (italiano/inglese o tedesco) edizioni C|E Contemporary, è teso a individuare e analizzare, nell’apporto creativo di ogni artista e nella relativa soluzione estetica, giusto la scintilla scatenante quel cortocircuito interno e quella dissonanza cognitiva, che ingenerano, nell’opera, la condizione del suddetto turbamento. Questo ciclo internazionale si apre con l’artista svizzera Chantal Michel e prosegue con gli artisti italiani Giuliano Galletta e Mauro Ghiglione, con l’artista inglese Jane McAdam Freud, figlia dell’artista tedesco, naturalizzato britannico, Lucian e pronipote dello psicoanalista austriaco Sigmund, e con il video-artista svizzero Peter Aerschmann.

CHANTAL MICHEL l’inquiétante étrangeté

L’orchidée se déterritorialise en formant une image, un calque de guêpe; mais la guêpe se reterritorialise sur cette image. La guêpe se déterritorialise pourtant, devenant elle-même une pièce dans l’appareil de reproduction de l’orchidée; mais elle reterritorialise l’orchidée en en transportant le pollen. La guêpe et l’orchidée font rhizome, en tant qu’hétérogènes. On pourrait dire que l’orchidée imite la guêpe dont elle reproduit l’image de manière signifiante (mimesis, mimétisme, leurre, etc.)… Véritable devenir, devenir-guêpe de l’orchidée, devenir-orchidée de la guêpe, chacun de ces devenirs assurant la déterritorialisation d’un des termes et la reterritorialisation de l’autre…Il n’y a pas imitation ni ressemblance, mais explosion de deux séries hétérogènes dans la ligne de fuite composée d’un rhizome commun qui ne peut plus être attribué, ni soumis à quoi que ce soit de signifiant…Le rhizome est une antigénéalogie.

Gilles Deleuze Félix Guattari, Mille Plateaux, Capitalisme et Schizophrénie, Les Editions de Minuit, 1980, Paris, p.17-18.

Chantal Michel è un’artista internazionale (1968 Berna) attiva sull’area del video, della fotografia, della performance, dell’installazione. La personale, in apertura della stagione espositiva 2016, che prende avvio con il secondo ciclo di C|E Contemporary, sul tema Die Kunst und das Unheimliche, si intitola L’Inquiétante Étrangeté. Lo spettatore viene accolto in una dimensione sospesa tra Natura e Artificio. Una doppia videoproiezione, un’installazione di piante verdi, un indefinibile odore di terra e fiori, introduce ad uno spazio fatto di riflessi, pannelli bianchi dagli spigoli vivi, dalle strutture geometricamente minimali, in cui sfere specchianti, da discoteca, diffondono, a raggiera, una pioggia di gocce dorate e argentate. Il titolo Jenseits von Zeit und Raum/Al di là del tempo e dello spazio, 2012, introduce ad un luogo immaginario. La dominante cromatica dell’ambiente è quella di un verde che va trascolorando in dissolvenze vegetali, minerali, lagunari. Un video, in loop, intitolato Der verbotene Garten/Il giardino proibito, proiettato sull’installazione da due postazioni diverse, non cessa di muoverla, destabilizzarla, decostruendola e innestandovi un fluire narrativo di immagini, luci, ombre e suoni che non le appartengono, provenendo da una situazione altra, estranea. La videocamera, ruota, durante la ripresa, intorno al corpo di una giovane donna bionda, in abito da ballo, di tulle giallo, stesa a terra, tra i sassi, accanto alle radici nodose di un tronco d’albero. Sotto i riflettori, la giovane, immobile, tiene, tra le mani, incrociate sul petto, una pochette argento, come le scarpe. Non è chiaro se dorma o non sia più in vita. Potrebbe, in quell’atmosfera fluida e tesa, al tempo stesso, essere stata oggetto di un incantesimo, protagonista di una favola, come Biancaneve, dopo aver morso la mela avvelenata. La videocamera la riprende girando lentamente sopra di lei, mentre un fondo sonoro ripete, ritmicamente, una sorta di battito cardiaco. Luci, odori, volumi, vibrazioni melodico-metalliche, cadenzate, investono sensorialmente lo spettatore, spaesato e ignaro della loro provenienza. Si ha l’impressione di essere davanti ad un set cinematografico per la ripresa di scene rinvianti ad una favola, ad un racconto, forse ad uno spettacolo in una discoteca. In questa situazione sfuggente, il filosofo tedesco Friedrich von Schelling, interessato alla nozione d’inconscio, avrebbe individuato il Perturbante nello svelarsi di un mistero, nell’affiorare di una figura inquietante che sarebbe dovuta restare nascosta: la giovane donna stesa a terra, intorno a cui si formulano ipotesi. L’inquietudine poteva aleggiare nello scenario, senza mostrare il soggetto coinvolto – la donna bionda – nella sua inoppugnabile evidenza. L’artista Chantal Michel non si identifica nella protagonista di performance che la vedono immobile, per ore, in situazioni di pericolo, preferibilmente in luoghi pubblici, sostenendo di aver, in quanto artista, ideato una creatura che, a partire da quell’ideazione, assume sembianze mutevoli, comportamenti imprevedibili, lasciando entrare la casualità e l’imprevisto nel divenire dell’azione. Per farmi comprendere che non intende identificarsi nel personaggio che via via interpreta, mi porta l’esempio di un Gérard Depardieu, attore cinematografico tanto professionale quanto versatile che, tuttavia, fuori dallo schermo, resta solo se stesso. Chantal Michel, infatti, non cessa di costruire identità mutanti che traggono dalla sua persona, dal suo corpo, la materia per agire, mostrarsi, provocare, sparire, senza lasciar tracce. L’artista crea un set in cui il tempo si è fermato, in cui il soggetto, in movimento o immobilizzato, entra a far parte di un’ambientazione artificiale, ricostruita. Nelle sue installazioni, nelle sue performance, l’artista non cessa di denunciare, con humour e ironia, cliché, tic, stereotipi, della classe borghese. Scaturiscono così dal suo immaginario figure e personaggi riscontrabili anche in un inconscio collettivo. Un ulteriore elemento di inquietudine si intravede nella ripetitività delle situazioni, quasi il soggetto subisse una coazione a ripetere, come avviene alla bambola Olympia, nel racconto L’uomo della sabbia (Der Sandmann, 1815), della raccolta Notturni, di E.T.A. Hoffmann, incentrato sull’immaginario di un automa. Dunque Chantal Michel è estranea ai suoi personaggi, che appaiono come riprodotti da un calco neutro. Durante l’azione li lascia agire, seguendoli a distanza, dalla postazione del suo doppio. Può accadere che, rivedendo il risultato della performance, trovi una certa rassomiglianza a se stessa, ma questo sempre dopo, a intervento finito. Il suo è un mondo dove ogni tipologia di comportamento, ogni giudizio etico o estetico, positivo o negativo, ogni logica, vengono temporaneamente sospesi in una terra-di-mezzo in cui è il sogno o l’incubo, la ragione o l’assurdo, che trovano spazio, come nel capolavoro di Lewis Carroll Alice nel Paese della Meraviglie. Chantal Michel ama occupare gli interstizi tra le cose dell’universo quotidiano, e farvi scaturire storie inedite, da far scoprire all’osservatore, suscitando in lui riflessioni e domande. Le sue foto, le sue performance ricreano l’atmosfera di un luogo in cui fondersi o con cui entrare in contrasto, mentre i suoi video riprendono, con la camera prevalentemente fissa, la figura di una protagonista presente e al tempo stesso irraggiungibile, stagliata su un fondale tendenzialmente neutro. L’altra sezione della mostra, intitolata Münchner Schaufenster, è fotografica, ed è ambientata nella vetrina di alcune strade di Monaco di Baviera. Il soggetto, per lo più femminile, ideato, fotografato, videoripreso, animato, nell’opera di Chantal Michel è colto, sovente, nel suo divenire vegetale, floreale, animale, altro da sé, proprio come quell’ape, di cui scrivono Deleuze-Guattari in Mille Plateaux, che nel contatto, non cessa di divenire orchidea e l’orchidea, a sua volta, di divenire ape. Il primo gesto è quello di trovare una vetrina, costruita secondo certi stilemi in uso e in voga in centri urbani, ora borghesi ora popolari, e di abitarla, di trovare un modo di diventare oggetto tra gli oggetti, decoro tra i decori, merce tra le merci, feticcio tra i feticci. Sono vetrine assurde, decorate come seguendo un rituale prestabilito, con un mazzo di fiori, un nastro rosa, un tendaggio, una bambola, un cagnolino, un souvenir. Chantal Michel dice di atteggiare la figura di sua ideazione ora come un animale domestico in un salotto, ora come una belva addomesticata nella gabbia di uno Zoo, davanti agli occhi indagatori dei bambini, o quelli indifferenti degli adulti di passaggio. Occupa, ironicamente, provocatoriamente, una vetrina come uno spazio privato in luogo pubblico. Ecco che, nella megafotografia della vetrina in Josefallee 128, una giovane donna è rannicchiata, quasi in posizione fetale, sotto una decorazione di piante verdi da giardino o appartamento; in quella di Karlstrasse è accucciata, a occhi chiusi, con una mano sul ginocchio e l’altra contro la vetrata: l’effetto flou la rende quasi trasparente, fusa, con il suo abito di tulle rosa, con una pianta, una tenda sul fondo, un vaso di fiori, un particolare della facciata di una casa. Dietro una vetrina che porta la scritta in oro “Garda” una donna, ancora bionda, si nasconde il volto tra le mani, accanto al primo piano di una tenda di pizzo color avorio e di piante rampicanti. In Schillerstrasse 24 la donna compare vestita di tulle celeste e pizzi, ha gli occhi segnati ed è accoccolata accanto all’oggetto souvenir della Tour Eiffel, incongruo nel contesto, ma tipico come decoro esotico: a lato campeggia una pianta da appartamento, mentre, su di lei, transita il riflesso di un’automobile bianca. In Buttermelcherstrasse 64 la giovane donna ricompare vestita di tulle rosa, con parrucca bionda, nella posizione però di una gattina in posa, braccia/gambe tese, tra le cornici dorate di dipinti ad olio: sul retro si intravedono due signore, possibili acquirenti. Nella vetrina di Türckenstrasse 42, tra i sassi delle decorazioni, il riflesso di una facciata illuminata, di un lampadario, appare, come un fantasma, insaccata in una specie di tutù bianco o forse di un abito da sposa, una donna dall’espressione stranita. Quello che le due sequenze fotografiche, dallo stesso titolo, ma di formati differenziati, intendono comunicare è la modalità creativa dell’ideazione di una vetrina per un pubblico di città, che si presume venga, in qualche modo, attratto e interessato alla merce esposta. L’elemento inusuale, in negozi di quadri, piante o fiori, oggetti decorativi e souvenir, è la presenza di una donna, bionda nella fattispecie, vestita come una bambola, colta in posizioni imprevedibili, più consone al comportamento spontaneo di un animale domestico che vi sia sgusciato, all’insaputa del personale addetto alle vendite. In questo incrocio di sguardi tra l’esterno, sulla strada, e l’interno, di un punto vendita, si assiste ad una sorta di animalisation d’une vitrine et vitrification d’un corps. Con il suo lavoro l’artista intende comunicare che, inevitabilmente, si è marcati da ciò che ci circonda. La sua opera non mette in questione l’estraniarsi da sé, ma lo pratica nelle sue camaleontiche mutazioni. Lo scenario delle sue video-installazioni, delle sue fotografie, delle sue performance, è inquietante, la situazione è indecidibile e, in qualche modo, sospetta. Le presenze, nelle opere di Chantal Michel, slittano tra corpi organici e corpi senz’organi, tra corpi vegetali e animali, tra corpi attuali e immateriali: il loro sonno ha il respiro della veglia, la loro realtà sfuma nell’onirico, l’ambiguità della situazione non cessa di aprirsi ad una diffusa, inafferrabile, sensazione di Perturbante, di ineludibile segno freudiano.

Viana Conti

Critica d’arte contemporanea, saggista, curatrice.

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